Marek Rostkowski
Il periodo pre-conciliare
Dal Concilio di Trento al Vaticano I non si può parlare in senso stretto dell’esistenza di un “laicato cattolico” ma si può e si deve parlare di una sua lenta preparazione e delle premesse per una sua attiva presenza nell’apostolato. Luigi Sartori scrive che “dei laici non si parli al Tridentinum e al Vaticano I e che anzi questi due concili si affermino piuttosto come i concili della Chiesa gerarchica. La presenza del laicato cattolico è, però, sottintesa e promossa già nelle sue premesse”[1].
Pian piano, l’apostolato dei laici, dal modello medioevale, indirizzato a finalità quasi esclusivamente religiose (di preghiera, carità, assistenza) e con la sua spiritualità adottata da quella dei monaci o dei frati, comincia ad esplicarsi in forme sempre nuove. La nuova direzione va con orientamenti sempre più decisi di cristianizzazione e, maturando progressivamente la coscienza di un “laicato” inteso come organico e specifico settore di funzione e di attività, entra nella stessa vita della Chiesa[1].
I pontefici prima del 1922
Nel XIX secolo bisogna ricordare alcuni discorsi e documenti dei pontefici riguardanti le forme di cooperazione dei laici. I papi hanno sottolineato soprattutto l’importanza dell’apostolato della preghiera e del sacrificio. Gregorio XVI nell’enciclica Commissum divinitus del 1835 chiaramente specifica la divisione in due categorie di cristiani: l’una costituita da coloro che hanno il compito di presiedere e comandare, ossia il clero e la gerarchia ecclesiastica; l’altra, composta da coloro che sono sottomessi e debbono obbedire. Egli riporta le parole dell’imperatore Basilio espresse nell’ottavo concilio che ai laici, in nessun modo, è permesso trattare questioni ecclesiastiche e che l’investigazione e la ricerca, in questo ambito, sono riservate al clero, destinato all’ufficio di reggere e, con la potestà, “santificare, legare e sciogliere” [1].
Cinque anni più tardi, nel 1840, nella lettera enciclica Probe Nostris[1], il Pontefice menziona l’associazione della “Propagazione della Fede” fondata nel 1822 a Lione che, si sostiene, si espande, si accresce con le modeste offerte e con le quotidiane preghiere innalzate a Dio dagli associati. Quest’opera, finalizzata a sostenere gli operai apostolici ed a esercitare le opere della carità cristiana verso i neofiti, è stata considerata dal Papa “degnissima dell’ammirazione e dell’amore da parte di tutti i buoni”[1].
Nel 1854 Pio IX sottolineò che la carità apostolica è il fondamento morale della preghiera apostolica e missionaria. La Chiesa deve pregare intensamente affinché tutti i popoli si convertano al Cristo e deve impegnarsi con tutte le sue forze per la salvezza collettiva dell’umanità[1].
Papa Mastai Ferretti incoraggiò le iniziative di riunire i fedeli in vista della difesa della fede. A tal punto, con la sua benedizione ed il suo appoggio viene fondata nel 1867 la Società della Gioventù cattolica con il programma espresso in tre parole “preghiera-azione-sacrificio”. I giovani volevano opporsi allo spirito del tempo e si ponevano a servizio della Santa Sede. Sette anni dopo nasce l’Opera dei congressi, sorta per combattere lo spirito liberale e difendere i diritti della Chiesa[1].
Nonostante una dottrina sul laicato più elaborata rispetto a quella dei suoi predecessori, durante il pontificato di Pio IX l’impegno dei laici inizia a presentarsi come ausiliare dei compiti della gerarchia contro le tendenze irreligiose dell’epoca, però rimane sempre la diffidenza di base circa l’inserimento dei laici nell’attività apostolica della Chiesa[1]. Nella lettera apostolica Exortae in ista del 1876, il Papa sollecita i laici che non essendo da Gesù stabiliti come dirigenti nella Chiesa, per il loro bene devono stare sottomessi ai loro pastori legittimi. Ai laici appartiene di farsi, a seconda del loro stato, gli ausiliari del clero, ma non mai di intromettersi nelle cose affidate da Gesù ai pastori[1].
Il successore di Pio IX, papa Leone XIII nell’enciclica Sancta Dei civitas pubblicata nel 1880, impegnando tutti i fedeli ad inserirsi nel movimento di cooperazione missionaria, li esorta nello stesso tempo alla preghiera ed all’aiuto materiale. Queste due specie di cooperazione, che consistono nel dare e nel pregare, sono molto utili ad allargare i confini del Regno di Dio. Possono essere facilmente compiute da uomini di qualunque condizione[1]. Con l’unione di tutti si possono fornire grandi aiuti. Il Papa sottolinea quanto grande sarà il compenso che spetterà a colui che, speso per le missioni un denaro per quanto esiguo ma arricchito da una preghiera, svolge molte e varie opere di carità[1].
Dall’altra parte, il Pontefice ribadiva la funzione primaria dell’autorità, cui compete la custodia della verità e la responsabilità spirituale delle persone[1]. In una lettera del 1885 al cardinale Guibert confermava che è
incontestabile e assolutamente chiaro che nella Chiesa, in forza della sua natura, vi sono due stati ben distinti: i pastori ed il gregge, cioè i capi ed il popolo. Il primo ha la funzione di insegnare, di governare e di dare agli uomini le leggi necessarie; l’altro ha il dovere di sottomettersi al primo, di ubbidirgli, di eseguire i suoi ordini, di dimostrargli rispetto[1].
Papa Pio X, nel 1905, lanciò un appello ai laici affinché impegnassero tutte le loro forze per riportare Cristo nella famiglia, nella scuola e nella società. Una delle prime encicliche la dedica proprio a tracciare la prima sintesi dottrinale della natura e della missione dell’Azione Cattolica[1]. Vedendo l’importanza ed il ruolo che i laici devono svolgere nell’organismo della Chiesa ed essendo consapevole delle diverse difficoltà che la sfidano nel mondo, conferma l’insegnamento dei suoi predecessori e chiede ai fedeli laici di sottomettersi alla gerarchia.
Un anno dopo, protestando e condannando la “Legge di separazione dello stato e della Chiesa” in Francia (11.12.1905) lo stesso Pontefice sottolineò che la Chiesa è per la sua natura una società “ineguale”, cioè una società formata da due categorie di persone: i pastori ed il gregge, coloro che occupano un grado fra quelli della gerarchia, e la folla dei fedeli. Queste categorie sono così decisamente distinte tra loro, che soltanto nel corpo pastorale consistono il diritto e l’autorità necessari per promuovere ed indirizzare tutti i membri verso le finalità sociali[1].
Benedetto XV (1914-1922)
Il più importante documento pontificio che mette in evidenza la rinascita missionaria dopo la prima guerra mondiale è la Lettera Apostolica Maximum illud (30 novembre 1919) con la quale Benedetto XV dava un nuovo impulso alle pacifiche conquiste del Regno di Dio nei territori di missione, e mobilitava tutto il popolo cristiano per l’aiuto alle missioni. Anzitutto il popolo può aiutare in campo spirituale[1]. Per la prima volta il dovere missionario riceve una determinazione indiscutibile: “Innanzi tutto [i fedeli] devono por mente allo strettissimo obbligo che a loro incombe di aiutare le sacre missioni […] e questo dovere è tanto più stretto quanto maggiore è il bisogno in cui versa il prossimo”[1]. Il Pontefice segnala tre tipi di mezzi d’aiuto che si possono recare alle missioni:
Il primo [specie] è alla portata di tutti, ed è di rendere loro propizio il Signore per mezzo della preghiera. Già più di una volta abbiamo osservato che l’opera del missionario sarà sterile e vana se non verrà fecondata dalla grazia divina. […] Per impetrare questa grazia non vi è che un modo, ed esso consiste nelle perseveranza della preghiera umile e fervorosa[1].
Fra azione e cooperazione missionaria da una parte e contemplazione e preghiera dall’altra, vi è un nesso intimo, profondo e stretto. Parlando di preghiera infallibilmente efficace per l’opera del missionario, Benedetto XV intende alludere non soltanto alla preghiera vocale o contemplativa, ma a tutta la vita intera del cristiano, resa preghiera con la sua volontà: “Né vi può esser dubbio riguardo all’esaudimento di questa preghiera, trattandosi di una causa così nobile e così accetta agli occhi di Dio”[1].
Il Papa, continuando il pensiero di Leone XIII, nell’enciclica Sancta Dei civitas sottolinea l’obbligo individuale di tutti i membri della Chiesa di pregare per le missioni e insiste che ognuno è in grado di soddisfare questo dovere: “così tutti i cristiani devono, pregando, recare aiuto ai banditori dell’Evangelo, mentre essi sudano sul campo del sacro ministero”[1]. Benedetto XV raccomanda vivamente ai fedeli la partecipazione all’Apostolato della preghiera, augurando che nessuno si rifiuterà di appartenervi, ma tutti vorranno collaborare al lavoro apostolico se non con lo zelo almeno con le opere.
In secondo luogo il Papa fa appello per la promozione delle vocazioni missionari. Notando la scarsezza dei missionari, il Pontefice indirizza ai vescovi la richiesta di una generosa apertura ai bisogni del mondo missionario[1]. La cooperazione in quel campo può svolgersi in tre modi: con la personale risposta alla vocazione missionaria ed ingresso nell’esercito missionario; reclutando, aiutando e coltivando le vocazioni missionarie; promuovendo ed aiutando la Pontificia Opera di San Pietro Apostolo per il clero indigeno[1].
Per sostenere le missioni si richiedono anche i mezzi materiali. Benedetto XV sottolinea il modo particolare la necessità dell’aiuto, da parte di tutti cattolici, alle opere appositamente istituite a vantaggio dell’opera missionaria: l’Opera della Propagazione della fede con lo scopo di fornire gli ampi mezzi richiesti al mantenimento delle molteplici missioni; l’Opera della Santa Infanzia, una vera scuola per i ragazzi del servizio alla conversione del mondo; l’Opera di San Pietro per la formazione del clero indigeno delle missioni[1].
Nel mese di dicembre del 1921, il Papa indirizza la lettera Iucundum sane nuntium[1] ad Alois Oster, responsabile dell’Opera della Santa Infanzia in Germania, in occasione del settantacinquesimo anniversario dell’approvazione. Benedetto XV ricorda che i ragazzi offrendo la preghiera e l’elemosina in favore delle missioni, si mostrano ottimi discepoli del fanciullo Gesù. Meritano grande lode e riconoscimento anche tutti coloro che si sforzano di promuovere quest’opera di ampliare questo amore per le missioni e di suscitare nell’animo degli adolescenti la spinta di fede e l’ardore della virtù.
Pio XI (1922-1939)
I due maggiori documenti pontifici che caratterizzano la rinascita missionaria subito dopo la prima guerra mondiale (1914-1918) sono la Lettera apostolica Maximum illud di Benedetto XV ed il Motu proprio Romanorum Pontificum[1] di Pio XI la cui azione fu improntata ad intensa attività missionaria. Uno studio approfondito del Pontefice conduce ad importanti decisioni riguardanti la ristrutturazione della Pontificia Opera per la Propagazione della Fede per poter rispondere meglio alle nuove esigenze della Chiesa missionaria. Infatti, con il menzionato documento, il Papa trasferisce il Consiglio Centrale dell’Opera da Lione a Roma presso la Congregazione de Propaganda Fide e ne adatta lo statuto alle esigenze dei nuovi tempi. Tutti i Consigli Nazionali diventano collegati al Consiglio Centrale di Roma che sostituisce, in tal modo, quello di Lione. La Chiesa, che da tre secoli, attraverso la S. Congregazione de Propaganda Fide, coordinava tutta l’azione per la espansione del Vangelo nel mondo, si arricchiva, così, di un nuovo organismo nel settore della cooperazione missionaria. L’Opera diventa, quindi, l’organo ufficiale della Chiesa per la raccolta in tutto il mondo, non solo delle quote degli associati ma anche di tutte, indistintamente, le offerte donate a vantaggio delle missioni in genere[1].
Per meglio sostenere l’ardore che si era acceso nel popolo cristiano a favore delle missioni, soprattutto nell’Anno Santo 1925 con la visita dei pellegrini all’Esposizione Missionaria Vaticana, il papa Pio XI fa appello ai vescovi nell’enciclica Rerum Ecclesiae[1]. Nella prima parte del documento il Pontefice sottolinea la maggiore intelligenza del dovere che stringe i fedeli a cooperare ad una opera così santa e fruttuosa con entusiasmo e fervore, con l’istanza delle preghiere e con la generosità. Il documento impegna a fondo i vescovi ad introdurre ed a sviluppare nei fedeli la consuetudine della preghiera frequente per le missioni. Devono con la parola e con gli scritti introdurre l’abitudine di pregare il Padrone della messe perché mandi operai e perché i pagani ricevano i soccorsi della luce celeste e della grazia[1].
Fino a Pio XII i motivi per una cooperazione missionaria sono motivi di generosità e di carità. Secondo Pio XI nella suddetta enciclica vi è un ringraziamento per la fede ricevuta. Non c’è dimostrazione di carità maggiore o più insigne per il prossimo che liberarlo dalle tenebre della superstizione ed istruirlo nella vera fede di Cristo. Ciò supera qualunque altra opera o prova di carità, osserva il Papa, e chiunque eserciti quest’opera secondo le sue forze, dimostra di stimare il proprio dono della fede e manifesta la sua gratitudine verso la bontà di Dio partecipando agli infedeli questo stesso dono[1].
Quando si conosce il problema missionario tramite la predicazione, la stampa missionaria e l’animazione, scrive Pio XI, è impossibile non passare dalla conoscenza al fervore. Il documento determina il dovere di ogni fedele: di pregare per le missioni e di contribuire in qualche modo ad aiutarle. A nessuno manca la possibilità della preghiera, anzi tutti hanno nelle loro mani questa possibilità per sostenere le missioni. Bisognerebbe che la preghiera missionaria fosse quotidiana, specialmente per i bambini e per le religiose[1].
Per una collaborazione più efficiente, per poter meglio contribuire ad aiutare le missioni occorre, secondo il Pontefice, che il popolo cristiano sostenga le Opere della Propagazione della Fede, della Santa Infanzia e di San Pietro Apostolo per il Clero Indigeno. I fedeli, con le offerte date o raccolte da ogni parte, debbono aiutare e mantenere queste Opere ricordando che anche i più poveri, impossibilitati ad aiutare materialmente le missioni, possono cooperare per mezzo della rassegnazione, della sofferenza e del dolore[1].
Nell’anno 1929 Pio XI firma due importanti documenti riguardanti le Pontificie Opere Missionarie. Il Motu Proprio Decessor noster[1] coordinò l’azione delle tre opere riconoscendo a quelle di Santa Infanzia e di San Pietro Apostolo il carattere di Opere sussidiarie di quella della Propagazione della Fede. Tutti i bisogni delle missioni hanno nelle tre associazioni, l’ausilio sicuro ed adeguato dei fedeli, ed i fedeli hanno in esse il mezzo migliore per soddisfare l’obbligo della cooperazione all’evangelizzazione. Le Pontificie Opere Missionarie dipendono dalla Sacra Congregazione de Propaganda Fide ed il loro potenziamento è un dovere e un diritto della Gerarchia Ecclesiastica.
Col secondo documento, Motu Proprio Vix ad summi[1] furono fissati gli statuti definitivi della Pontificia Opera di San Pietro Apostolo per il Clero Indigeno. Questa Opera, scrive il Papa, deve, per la sua stessa natura, essere considerata come un aiuto alla Sacra Congregazione de Propaganda Fide in ciò che riguarda la buona formazione del clero indigeno e specialmente la fondazione di seminari maggiori e minori. Essa domandi ai fedeli preghiere e buone opere all’intenzione delle vocazioni sacerdotali, e di contribuire, secondo le proprie forme, sia con le offerte, sia con l’adozione di qualche seminarista indigeno oppure fondando borse di studio per l’educazione e il mantenimento, in perpetuo, di un seminarista[1].
L’opera, che vanno svolgendo gli zelatori e le zelatrici delle Pontificie Opere Missionarie, porta un prezioso contributo allo sviluppo della coscienza missionaria tra il popolo cristiano. È una azione capillare di retrovia che raggiunge ogni fedele. Al fianco, però, delle grandi opere di cooperazione missionaria generale, sono sorte molte altre iniziative. Vicino ai grandi ordini religiosi sono sorte centinaia di congregazioni e società, alcune esclusivamente missionarie, le quali trovano nella generosità dei fedeli i mezzi di azione. Pio XI nel 1932 ai Rappresentanti dell’Apostolato della Preghiera dice:
Il divino Redentore non si è mai impegnato tanto come nel promettere ascolto ed esaudimento alle preghiere. Ed è con la preghiera che si può ottenere ai missionari, agli apostoli nuovi, ogni aiuto, ogni conforto, affrettando il compimento delle loro aspirazioni, cioè la salvezza delle anime, la luce a tanti che tuttora giacciono nelle tenebre della morte…. Ora essi possono essere aiutati in modo meraviglioso e Iddio solo sa quanta parte dei loro buoni successi e dei felici risultati che ottengono è dovuta all’apostolato della preghiera[1].
La preghiera ed il sacrificio sono stati, da sempre, considerati come i metodi più preziosi di collaborazione con Gesù alla salvezza degli uomini.
Pio XII (1939-1958)
Pio XII, il Papa che si è trovato a reggere la Chiesa in una nuova situazione storica, ha più volte richiamato l’attenzione sui grandi problemi delle missioni. Già nel primo anno del suo pontificato, nella lettera enciclica Sertum laetitiae, indirizzata ai vescovi americani in occasione del 150° anniversario della gerarchia ecclesiastica negli Stati Uniti d’America[1], loda l’attività delle opere missionarie, sia quelle con diritto pontificio, “bene stabilite e attive, con le preghiere, con le elemosine e con altri aiuti di vario genere esemplarmente coordinano gli araldi del Vangelo impegnati a far penetrare nelle terre degli infedeli il vessillo della Croce, che redime e salva”, che quelle opere missionarie particolari, “le quali con alacre interessamento si curano della diffusione del cattolicesimo”[1].
Nel 1940, Pio XII domandava ai fedeli del Portogallo[1] di pregare per le vocazioni missionarie sia nazionali sia quelle indigene dei territori d’Oltremare, e non solo vocazioni di sacerdoti ma di fratelli coadiutori, di religiose e di catechisti. Esprimeva il desiderio che si istituissero giornate missionarie nelle parrocchie, nei collegi e nei seminari[1]. Papa Pacelli è il pontefice che per la prima volta parla di una precisa formazione missionaria seminaristica, piena del clima di sensibilità missionaria. Nel suddetto documento parla esplicitamente dell’istruzione missionaria da darsi nei seminari[1].
Dal rapporto delle collettività cattoliche delle metropoli che esercitano qualche potere (in caso coloniale) su certi paesi di missione, deriva un dovere particolare di pregare per l’azione missionaria nei medesimi territori e di sostenerli materialmente: “Come i vostri gloriosi predecessori (…) così anche voi impegnatevi con l’offerta dei vostri figli, le vostre orazioni e il vostro obolo generoso per le missioni”[1].
L’importante ruolo della preghiera missionaria e del sacrificio sono state sottolineate diverse volte da Pio XII[1]. L’apostolato della preghiera forma nella Chiesa una falange di oranti e penitenti, i quali mediante l’offerta quotidiana di preghiere, azioni e sacrifici convertono la propria vita in “impetrazione” per l’avvento del Regno di Dio nel mondo. Il sacrificio è uno dei modi più preziosi di collaborare con Gesù alla salvezza degli uomini. Nessun settore rimane chiuso all’apostolato del sacrificio. Il dono della sofferenza, sacrificio unito al sacrificio di Gesù e offerto alle intenzioni dell’opera evangelizzatrice della Chiesa, permette a tanti non-credenti di trovare la vera fede[1].
1.4.1 Mystici Corporis
Come è stato già sottolineato, fino a Pio XII la cooperazione missionaria era possibile grazie ai sentimenti di generosità e di carità. Benedetto XV ha puntato sull’obbligo proveniente dal comando divino di interessarsi della salvezza dei prossimi[1], invece Pio XI specificava un ringraziamento per la fede ricevuta come fattore di una cooperazione missionaria[1]. Con Pio XII un’altra serie di motivi prende posto accanto ai primi: quelli provenienti dal Corpo Mistico del Signore. Secondo l’enciclica Mystici Corporis[1] “il Corpo mistico” è una concreta realtà storica composta di membri ordinati gerarchicamente e dotata di mezzi di santificazione, che, anche se è unita al suo Capo Cristo, mantiene da Lui una insopprimibile distanza “ontologica”. Il Corpo Mistico, essendo il Cristo, deve abbracciare tutti gli uomini per raggiungere la perfezione del “Cristo tutto”: Corpo e membra. Tutti i membri devono dare energie al Corpo non solo perché viva sempre più pienamente la sua vita, ma anche perché si sviluppi conquistando coloro che ancora non appartengono ad esso. Ciascun membro poi deve portare un suo contributo rispettando il posto che egli occupa nel Corpo[1]. L’enciclica suddetta ha rappresentato un autorevole punto fermo nella prima fase del rinnovamento ecclesiologico ed ha lasciato prevedere l’apertura della seconda fase che culminerà nel Concilio Vaticano II[1].
1.4.2 Evangelii praecones
Nel 1951 papa Pio XII pubblica l’enciclica «Evangelii praecones» – per un rinnovato impulso delle missioni[1]. Cogliendo l’occasione del 25° anniversario della pubblicazione della Rerum ecclesiae, il vicario di Cristo con profonda soddisfazione, loda il fecondo lavoro già compiuto e rivolge a tutti una calda esortazione a progredire con somma alacrità. Il documento dedica parecchi paragrafi a ricordare quanto sia stato prezioso il contributo dei laici all’apostolato missionario della Chiesa, dalle origini fino ai nostri giorni. Papa Pacelli ricorda i primi “laici missionari”, compagni di san Paolo, nella diffusione della Parola, presenta un quadro con vite parallele del clero e del laicato menzionando solo alcuni nomi della storia della Chiesa[1].
La terza parte del documento parla direttamente della cooperazione missionaria mettendo una speciale attenzione all’attività delle Pontificie Opere Missionarie. Il Papa evidenzia che non c’è carità più utile della carità missionaria, destinata ad estendere il Regno di Dio e a procurare la salvezza di tante anime. La Santa Chiesa chiama a raccolta tutti i suoi figli perché cerchino di collaborare con gli araldi del Vangelo per mezzo della preghiera, delle elemosine e dell’aiuto prestato alle vocazioni missionarie[1].
1.4.3 Fidei donum
Pio XII torna su questo tema in altri documenti per ricavare luce di dottrina e sprone per l’azione. Nell’esortazione apostolica Menti Nostrae[1] richiede a tutti i cristiani di sentire il dovere di favorire ed aiutare coloro che si sentono chiamati al sacerdozio[1]. Nello stesso anno, nella lettera Perlibenti quidem[1] indirizzata al card. Fumasoni Biondi, Prefetto della Congregazione de Propaganda Fide, il Papa esorta tutti i fedeli affinché perseverino nel proposito di sostenere le missioni, moltiplichino le loro iniziative a vantaggio di queste, innalzino incessantemente a Dio fervorose preghiere, prestino aiuto a quanti sono chiamati all’apostolato missionario, procurando loro i necessari mezzi secondo le possibilità. In un’altra lettera al card. Fumasoni Biondi del 4 dicembre 1950, Praeses Consilii, sottolinea l’importanza della Pontificia Opera della Santa Infanzia e di nuovo rinnova l’appello affinché tutti i fedeli aiutino simultaneamente con la preghiera e con le offerte[1].
Il concetto qui espresso torna negli altri documenti di Pio XII, come nel discorso ai moderatori e cooperatori delle Pontificie Opere nel 25 aprile 1952[1] e nel messaggio in occasione della Giornata Missionaria del 18 ottobre 1953[1]. In modo particolare l’eco dei documenti precedenti la troviamo nell’enciclica Fidei donum[1]. G. Spadetto scrive che anche i predecessori di Pio XII avevano chiamato a raccolta il laicato, ma piuttosto indirettamente. Preghiere ed offerte erano richieste come cose necessarie perché i cristiani adempissero al loro dovere di pensare alla salvezza del prossimo. Papa Pacelli invece richiese una cooperazione più particolare, di pregare di persona per la diffusione del Vangelo[1]. La Chiesa, missionaria fin dalle sue origini, non ha mai cessato di indirizzare ai suoi figli un triplice invito: alla preghiera, alla generosità ed al dono di se stessi rispondendo alla vocazione missionaria[1]. Pio XII chiede di inserire la preghiera missionaria nella stessa vita liturgica delle comunità cristiane. Là effettivamente si trova la vera soluzione del problema della cooperazione missionaria dei fedeli, perché proprio nella vita liturgica si deve alimentare lo zelo apostolico dei fedeli. Il Santo Padre chiede di rimettere lo spirito apostolico e la preghiera missionaria al proprio posto nella vita liturgica della Chiesa, come avveniva nell’antichità. Le pagine dell’enciclica costituiscono un vigoroso passo in avanti per mettere in rilievo il significato missionario di alcuni tempi liturgici e per inserire le intenzioni missionarie di preghiera nella celebrazione eucaristica[1].
Una preghiera non può essere sincera se non è accompagnata, nella misura delle proprie possibilità, da un gesto di generosità. Il Papa sottolinea l’enorme sforzo materiale che ha permesso i progressi dell’evangelizzazione dall’inizio del ventesimo secolo. In collaborazione con le Pontificie Opere Missionarie, i fedeli hanno potuto fare tanto per la diffusione del Vangelo. Però le esigenze sono sempre maggiori e soltanto con una vittoria della carità “la faccia del mondo potrebbe essere rinnovata”[1].
Le vocazioni missionarie devono essere favorite in tutti i modi, appella Pio XII, ma non basta formare un’atmosfera favorevole a questa causa, bisogna fare di più. Serve sviluppare tra i fedeli una condizione di spirito, un’apertura d’animo, che li renda più sensibili alle preoccupazioni universali della Chiesa[1].
Il discorso inaugurale del II° Congresso mondiale per l’apostolato dei laici (5.10.1957)[1] di Pio XII ha una fondamentale importanza nei riguardi dell’apostolato dei laici, compreso quello missionario. Tutti i principi, le direttive e le prospettive vi sono esposte con singolare chiarezza e competenza. La collaborazione dei laici con la gerarchia si esplica in diverse forme, dal sacrificio silenzioso offerto per la salvezza delle anime alla buona parola e all’esempio che induce alla stima gli altri[1]. Nella seconda parte il documento evidenzia che invece di presentare una spiritualità egocentrica, che attende solo alla salvezza della loro anima, bisogna formare i giovani cattolici allo spirito apostolico, affinché prendano anche essi le loro responsabilità verso gli altri ed i mezzi per aiutarli[1].
Giovanni XXIII (1958-1963)
A sua volta, papa Giovanni XXIII consacra alle missioni la quarta enciclica del suo pontificato, la Princeps Pastorum[1] che riprende, ancora con più insistenza, gli insegnamenti dei suoi predecessori e precisa ciò che la Chiesa attende dai laici cristiani, sia autoctoni che esteri, in favore delle giovani Chiese missionarie[1]. Nell’ultimo capitolo, il Papa ha invocato tutti i vescovi, il clero ed i fedeli delle diocesi del mondo intero, affinché contribuiscano, con le preghiere e con le offerte, ai bisogni spirituali e materiali delle missioni, ad intensificare questa necessaria collaborazione[1].
La Princeps Pastorum, per la prima volta, indica nuove forme di cooperazione “professionale”, oltre a quelle comuni delle Pontificie Opere Missionarie, per quei laici che non potessero impegnarsi direttamente nei territori di missione:
Il Nostro appello va anche a tutti quei laici cattolici che, dovunque, emergono nelle professioni e nella vita pubblica, affinché considerino seriamente la possibilità di aiutare i loro nuovi fratelli nella fede, anche senza abbandonare la loro patria. Il loro consiglio, la loro esperienza, la loro assistenza tecnica potranno, senza eccessiva fatica e senza gravi incomodi, portare un contributo a volte risolutivo. Non mancherà ai buoni lo spirito di iniziativa per tradurre in pratica questo Nostro paterno desiderio, facendolo conoscere là dove potrà essere accolto, incoraggiando le buone disposizioni e facendo trovare ad esse il migliore impiego[1].
Giovanni XXIII, nel discorso al Congresso delle Zelatrici delle Pontificie Opere Missionarie in Italia del 26 aprile 1959[1], afferma, categoricamente, che la collaborazione all’opera dei missionari, mai forse come oggi, si è fatta sentire così urgente e imperiosa. Bisogna però respingere l’idea errata, diffusa in non pochi cristiani, che la cooperazione missionaria si esaurisce tutta in una semplice offerta di mezzi e di aiuti materiali. In tal modo, continua il Santo Padre, il problema missionario viene abbassato al livello di un qualsiasi problema essenzialmente materiale. I mezzi materiali, per quanto necessari, non sono né la principale né l’unica forma di cooperazione. Quello, invece, che maggiormente conta è l’amore per le anime, la preghiera per la loro salvezza e, soprattutto, la sofferenza ispirata dalla carità[1]. Dall’altra parte la cooperazione missionaria, indica il papa Roncalli,
non meno preziosa si rivela per la salvaguardia della vita cristiana nelle stesse vostre diocesi e nelle vostre parrocchie. […] Diciamo […] che offrire preghiere, sacrifici e mezzi per portare la luce e l’amore di Cristo a coloro che ancora non la conoscono significa dare nuova linfa di vita alle diocesi di antica tradizione cristiana e salvare forse tante parrocchie che languiscono nell’inedia[1].
Nel 1962, ricorrendo il quarantesimo del Motu Proprio Romanorum Pontificum di Pio XI, Giovanni XXIII ha voluto commemorarlo con una Lettera Apostolica Amatissimo Patris indirizzata al cardinale Agagianian, prefetto di Propaganda Fide[1]. Il Papa ha riaffermato la validità e la vitalità del metodo adottato dalla Santa Sede con l’organizzazione delle Pontificie Opere Missionarie della Propagazione della Fede, di San Pietro Apostolo e della Santa Infanzia. Tra i mezzi di cooperazione il Pontefice, al primo posto, ricorda che le necessità spirituali richiedono anzitutto preghiera “assidua e fervorosa”, accompagnata coi sacrifici accetti al Signore. Le urgenze materiali, poi, sono tali e tante da richiedere l’impegno sempre più sentito e generoso dei fedeli. A questo scopo, si rivela molto opportuna la celebrazione della “Giornata Missionaria Mondiale”, che tende a stimolare il fervore e la generosità dei cattolici per favorire aiuti di ogni genere al lavoro dei missionari. Alle necessità spirituali e materiali delle missioni i fedeli possono convenientemente venire incontro accogliendo l’invito del Papa ad iscriversi alle Pontificie Opere Missionarie[1].
Il contributo dei documenti del Concilio Vaticano II
L’ecclesiologia della comunione del Concilio Vaticano II ha approfondito il senso dell’appartenenza alla Chiesa e della dignità dei fedeli laici. Questa ecclesiologia ha promosso la loro collaborazione con i vescovi, i preti e i religiosi. L’insegnamento del Concilio ha portato un cambiamento di mentalità e, quindi, atteggiamenti concreti in rapporto al ruolo dei laici nella realtà ecclesiale, alla loro partecipazione alla missione della stessa Chiesa, alla loro responsabilità nel mondo[1].
La dottrina sul laicato cristiano si trova in parecchi documenti del Vaticano II. Non soltanto nel decreto Apostolicam actuositatem sull’apostolato dei laici[1], ma anche nella costituzione dogmatica Lumen gentium sulla Chiesa[1], nel decreto Ad gentes sull’attività missionaria della Chiesa[1], nella costituzione pastorale Gaudium et spes sulla Chiesa nel mondo contemporaneo[1] troviamo gli elementi della “laicologia” sistematica. Questi documenti indicano alla teologia le direzioni generali per trovare le risposte al confronto costante tra verità rivelata ed i bisogni della nostra realtà[1]. Il Concilio Vaticano II ha messo in luce la riscoperta di nuove prospettive della teologia sulla Chiesa locale, sulla collegialità episcopale e sul diritto costituzionale della Chiesa. L’evoluzione del concetto di cooperazione missionaria ha seguito di pari passo questo cambiamento. Giovanni B. Reghezza scrive:
Le due solenni dichiarazioni conciliari, che sono apparse come teoriche e astratte, specialmente quelle che concernono la natura della Chiesa, definita essenzialmente missionaria, Popolo di Dio profetico, e quella sul sacerdozio ministeriale, in servizio permanente per un apostolato aperto al mondo, affermavano, in realtà, l’esistenza di un dovere missionario, che si può tradurre in attività o in cooperazione, e l’universalità per tutti i membri della Chiesa di questo obbligo che le deriva dai Sacramenti del Battesimo, della Cresima e dell’Eucaristia[1].
Lumen gentium
La costituzione dogmatica sulla Chiesa Lumen gentium in rapporto alla collaborazione dei laici nell’opera missionaria ha formulato alcuni principi importanti che poi saranno ribaditi in altri documenti ufficiali della Chiesa. Il capitolo IV della suddetta costituzione è dedicato ai laici. I padri conciliari pongono un fondamento teologico del ruolo dei laici affermando:
Col nome di laici si intendono tutti i fedeli cristiani, ad esclusione dei membri dell’ordine sacro e dello stato religioso riconosciuto dalla Chiesa: i fedeli cristiani cioè che, incorporati a Cristo col battesimo e costituiti popolo di Dio, resi a loro modo partecipi della funzione sacerdotale, profetica e regale di Cristo, esercitano nella Chiesa e nel mondo, per la parte che li riguarda, la missione di tutto il popolo cristiano[1].
In questa stessa definizione il Concilio ha proceduto all’enumerazione delle caratteristiche positive del laico. Di questi laici, si dice, che per la loro parte compiono, nella Chiesa e nel mondo, la missione propria di tutto il popolo cristiano. Dunque i laici non solo hanno una missione cristiana “nel mondo”, ma anche “nella Chiesa”. Il Concilio, così, rompe con l’esclusivismo di chiunque volesse confinare i laici nella “situazione nel mondo”. Non sono soltanto cristiani che vivono nel mondo, ma hanno una missione propria “nella Chiesa”. Questa missione deriva dal battesimo per il quale partecipano alla triplice funzione di Cristo[1].
In forza del battesimo e dell’eucaristia non c’è nessuno nella comunità ecclesiale che possa sentirsi esentato dal compito missionario. Tutti, nella corresponsabilità e nella comunione, devono partecipare alla missione della Chiesa. Ciò implica, da una parte, l’esigenza di riconoscere e valorizzare il carisma di ciascuno, dall’altra lo sforzo di crescere in comunione con tutti, credenti e non credenti. Questo significa vivere in modo che la stessa comunione sia la prima forma della missione: “Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli, se avrete amore gli uni per gli altri” (Gv 13,35)[1].
Il Concilio precisa, nel suddetto capitolo della Lumen gentium, che l’apostolato o missione dei laici “è la partecipazione alla stessa salvifica missione della Chiesa”[1]. Questa missione consiste nel “cercare il regno di Dio trattando le cose temporali e ordinandole secondo Dio”[1], nel consacrare “a Dio il mondo stesso”[1], nel contribuire “al progresso universale nella libertà umana e cristiana” e nel risanare “le istituzioni e le condizioni di vita del mondo”[1]. I laici sono particolarmente chiamati, anche senza ricevere un mandato speciale, “a rendere presente e operante la Chiesa in quei luoghi ed in quelle circostanze, in cui essa non può diventare sale della terra se non per mezzo di loro. Così ogni laico, in virtù dei doni che ha ricevuto, è testimone e allo stesso tempo strumento vivo della missione della Chiesa”[1].
Partire da questa osservazione è molto importante, come afferma G. Lazzati[1], perché consente di ravvisare nella testimonianza il primo modo di partecipazione dei laici all’azione di evangelizzazione della Chiesa. Testimoniare significa rivelare con l’agire ciò in cui si crede. Più precisamente, si tratta di rendere trasparente il messaggio evangelico in termini di vita. Questa azione dei laici nel mondo non spetta loro solo nel senso di “apostolato di testimonianza” con la loro semplice vita cristiana. Infatti, bisogna sottolineare che spetta pure loro per vocazione propria superare questo limite ed agire nel terreno, che è chiamato terreno di “evangelizzazione” in senso stretto, per mezzo della parola e dell’azione apostolica vera e propria[1].
Il testo conciliare afferma che i laici partecipano alla missione profetica di Cristo e che perciò non solo la gerarchia, ma anche i laici hanno ricevuto da Lui “la grazia della parola” nella Chiesa[1]. Questa azione apostolica dei laici ha la sua efficacia speciale:
Questa evangelizzazione o annuncio di Cristo fatta con la testimonianza della vita e con la parola, acquista un carattere specifico e un’efficacia particolare per il fatto di avvenire dentro le comuni condizioni del secolo. […] I laici quindi, anche quando sono impegnati in occupazioni temporali, possono e devono svolgere una preziosa attività per l’evangelizzazione del mondo […]; se più frequentemente ancora ve ne sono di quelli che consacrano interamente le loro energie al lavoro apostolico, ciò non toglie che devono cooperare tutti all’espansione ed alla crescita del regno di Cristo nel mondo[1].
Quest’apostolato “nel mondo” non limita la partecipazione dei laici all’opera missionaria della Chiesa. C’è la possibilità di oltrepassare il campo di questa attività apostolica, specifica e propria, e di cooperare più strettamente con la gerarchia nello svolgimento della missione della Chiesa. Il Concilio dichiara in parole chiare:
Oltre a questo apostolato [di testimonianza] che riguarda indubbiamente tutti i fedeli cristiani, i laici possono anche essere chiamati in modi diversi ad una collaborazione più immediata con l’apostolato della gerarchia, alla maniera di quegli uomini e di quelle donne che aiutavano l’apostolo Paolo nel Vangelo e faticavano molto per il Signore (cfr. Fil 4,3; Rm 16,3ss)[1].
Infatti l’apostolo Paolo in Fil 4,2 parla di due donne, Evodia e Sintiche, però non dice nulla di quello che concretamente hanno fatto. Nella lettera ai Romani, san Paolo parla di molte persone, tra le quali vi erano certamente dei laici: “Prisca e Aquila, miei collaboratori in Cristo” (Rm 16,3), Maria (Rm 16,6), Trifena, Trifora e Pèrside (Rm 16,12), tutte impegnate in maniera stabile nelle prime comunità cristiane. Si deve notare la figura di Lidia (At 16, 14-15), dedita al commercio della porpora, che ha accolto il Vangelo con il cuore aperto ed ha messo a disposizione di Paolo la sua casa ed i suoi beni[1]. Come si vede, la sopraindicata citazione del Concilio non porta molta luce sull’oggetto della “collaborazione più immediata” dei laici con la gerarchia[1]. Quest’oggetto sarà più precisato nei decreti Apostolicam actuositatem ed Ad gentes. Essi presentano le idee più profonde sull’idea di missione e di collaborazione dei laici. Pur non apportando concetti totalmente nuovi, si inseriscono perciò, spesso, nel contesto teologico generale della missione e della “laicologia” elaborato dal Concilio.
Apostolicam actuositatem
L’affermazione fondamentale del decreto Apostolicam actuositatem è: “la vocazione cristiana infatti è per sua natura anche vocazione all’apostolato”[1]. Questa vocazione implica, perciò, la comprensione fondamentale della nostra esistenza cristiana come dinamismo. J. Ratzinger sottolinea questo aspetto dicendo:
La missione non si configura più come una semplice attività esteriore che si aggiunga quasi accidentalmente ad un cristianesimo statico, ma il fatto di essere cristiano significa, di per sé, andare al di là della propria persona, è già caratterizzato dall’impronta missionaria e deve, quindi, necessariamente – in ogni tempo e in ogni vero credente – esprimersi esteriormente in un’attività che realizzi la sua natura più profonda[1].
Bisogna affermare che il termine “apostolato” viene usato nel detto decreto più frequentemente della parola missione, però il contenuto del documento riguarda la partecipazione dei laici a tutta la missione della Chiesa. La parola “apostolato” esprime sia l’impegno specifico per la missione ad gentes, sia altre attività ecclesiali, qualificate per lo più come “apostolato”[1], ma non di rado i due termini sono usati come sinonimi. Nell’Apostolicam actuositatem l’apostolato quasi sempre assume il significato di missione in senso generale oppure di partecipazione alla missione universale della Chiesa[1].
Nel capitolo II, i Padri conciliari presentano i fini dell’apostolato dei laici. Tra essi, l’evangelizzazione e la santificazione degli uomini hanno un posto speciale: “ai laici si presentano moltissime occasioni per esercitare l’apostolato dell’evangelizzazione e della santificazione”[1]. Il dovere, il diritto e il compito non sono dati da un mandato della gerarchia, ma dal sacramento del battesimo e della cresima. Soprattutto la testimonianza stessa della vita cristiana e le opere buone possono attirare gli uomini alla fede e a Dio.
L’apporto proprio dei laici può essere non solamente incluso in un programma organico e concreto di apostolato della Chiesa universale o della diocesi, ma viene chiamato ad esplicarsi in forma di più immediata cooperazione con la gerarchia e con l’azione propria dell’apostolato gerarchico[1]. Di qui scaturisce il dovere della collaborazione all’attività missionaria della Chiesa: “anzitutto facciano proprie le opere missionarie fornendo aiuti materiali o anche personali. È, infatti, dovere e onore dei cristiani restituire a Dio parte dei beni che ricevono da lui”[1]. Il Concilio afferma, che l’impegno “materiale” oppure “personale” per aiutare la Chiesa nei territori di missioni è un dovere di riconoscenza, anzi di restituzione per i benefici ricevuti dal Signore.
L’importanza della forma associativa di apostolato è messa in risalto in modo speciale nel capitolo IV, dedicato ai vari modi dell’attività apostolica. Tra una grande varietà di associazioni gli autori elencano quelle che si propongono il fine apostolico generale della Chiesa, i fini dell’evangelizzazione e della santificazione, dell’animazione cristiana e che rendono testimonianza a Cristo con le opere di misericordia e di carità[1].
Difatti, le associazioni non sono fini a se stesse, ma tendono a trasformare i loro membri in testimoni eloquenti di vita di Chiesa e le associazioni stesse in modello di vita ecclesiale. Il Concilio sottolinea però la necessità di evitare la dispersione delle forze, che avviene, quando si promuovono associazioni senza necessità o non si trovano, per ogni nazione, le associazioni più adatte.
Il decreto non si limita ad affermare la necessità dell’unione con i Pastori nell’apostolato e nell’evangelizzazione ma aggiunge che “non è meno necessaria la cooperazione tra le varie iniziative di apostolato” e che tale cooperazione “deve essere convenientemente ordinata dalla gerarchia”[1]. Qui si tratta soprattutto del coordinamento che è “ordinato dalla gerarchia” e perciò è vincolante per coloro che sono coordinati per attuare tutti insieme e nella maniera più efficace la missione della Chiesa[1].
L’ultima parte del medesimo documento tratta della necessità della formazione all’apostolato. Per quanto riguarda il particolare adattamento della formazione dei laici all’apostolato di evangelizzazione e santificazione, il decreto pone l’accento, in campo tecnico, sul dialogo, e in campo spirituale, con maggior vigore, “sulla testimonianza della loro vita evangelica”[1].
Ad gentes
Il decreto sull’attività missionaria della Chiesa Ad gentes[1] sottolinea che “la Chiesa non è realmente costituita, non vive in maniera piena e non è segno perfetto di Cristo tra gli uomini, se con la gerarchia non si afferma e collabora un laicato autentico”[1]. Infatti, la Buona Novella non può penetrare profondamente tutta la vita di un popolo, se manca la presenza attiva dei laici.
Il Concilio invita i fedeli laici a dare testimonianza di una vita autenticamente cristiana nel loro ambiente di vita e di lavoro e, allo stesso tempo, a diffondere la fede di Cristo tra coloro in mezzo a cui vivono e lavorano[1]. Come già si è detto, e qui si vuole sottolineare, il primo stadio della collaborazione con l’opera di evangelizzazione è quello della testimonianza, cioè di uno stile che sia rivelatore di una concezione di vita, di valori e di rapporti umani. Ogni cooperazione, per essere efficace e recare un vero contributo alla missione evangelizzatrice della Chiesa, presuppone la testimonianza della vita cristiana, della santità cattolica non solo individualmente, da parte di ogni cristiano, ma collettivamente, da parte di tutta la comunità cristiana[1].
La partecipazione dei laici alla missione evangelizzatrice della Chiesa non è soltanto una parte integrale del loro apostolato ed uno dei doveri di ogni cristiano, ma nel contesto odierno, costituisce un appello speciale per ciascuno dei fedeli laici. Come, infatti, ai tempi della Chiesa dell’età apostolica, quando l’espansione del cristianesimo nel mondo greco-romano era principalmente opera dei laici, la Chiesa attuale si trova in un ambiente sempre più secolarizzato e, quindi, non può svolgere questa missione senza i laici[1].
Poiché “tutta la Chiesa è missionaria”[1] l’attività missionaria deve essere sostenuta da tutti i suoi membri. Di conseguenza, in tutte le parti del mondo i laici sono chiamati alla cooperazione missionaria, secondo le forme suggerite dalle circostanze e secondo le direttive della Chiesa, tenuto conto delle forze e delle correnti che l’attraversano.
Il fondamento teologico della cooperazione all’opera missionaria di tutto il Popolo di Dio, afferma D. Grasso, è riposto dal Vaticano II nel fatto stesso dell’essere cristiano “ogni fedele per il fatto stesso che mediante il battesimo è incorporato a Cristo e diventa suo membro, è tenuto a procurare lo sviluppo e la dilatazione di tutto il Corpo Mistico, indipendentemente dalla funzione che esercita in esso”[1]. Il nuovo essere, infuso dal sacramento del battesimo e confermato poi dalla cresima e dall’eucaristia, fa dei laici membra del Corpo Mistico e, per ciò stesso, responsabili del Suo incremento. Il problema missionario è il problema della Chiesa viva ed in crescita, quindi è essenzialmente un problema di vita, perciò un problema globale di tutte le membra. La Chiesa è dunque missionaria non per una molteplicità accidentale dell’attività missionaria, ma per la partecipazione armonica delle membra ad una sola crescita del Corpo.
L’unica attività missionaria della Chiesa, secondo il documento, comprende tre settori essenziali distinti ma complementari: il settore propulsivo e direttivo (il Papa e il collegio episcopale), il settore operativo (i missionari) ed il settore della cooperazione. Quest’ultimo comprende tutto il Popolo di Dio, i fedeli, che, pur non potendo partire per i territori missionari, sono tuttavia vitalmente legati allo sviluppo dell’unica Chiesa[1].
Il Concilio denota l’importanza della collaborazione dei laici in patria[1]. Qui la loro opera a servizio dell’evangelizzazione si concretizza nel favorire le vocazioni nella propria famiglia, nelle associazioni cattoliche[1] e nelle scuole, nella raccolta di offerte; ma soprattutto nel fomentare in se stessi e negli altri lo spirito missionario[1]. Nelle loro comunità, specialmente diocesane e parrocchiali, i laici devono “testimoniare Cristo di fronte alle gente”[1]. La comunità dovrebbe allargare “gli spazi della carità sino ai confini della terra”[1]. Il dovere missionario delle comunità cristiane comprende anche la sollecitudine per coloro che sono lontani e lavorano nei territori di missione. “Così l’intera comunità prega, coopera, esercita un’attività tra le gente attraverso quei suoi figli che Dio sceglie per questo nobilissimo compito”[1].
Il decreto Ad gentes, trattando della cooperazione dei laici, non ha voluto ignorare una forma di cooperazione, un concetto non strettamente religioso ma che può avere per le missioni una grande importanza. Si tratta della cooperazione economico-sociale per i popoli in via di sviluppo. Questa forma di cooperazione il Concilio preferisce chiamarla “collaborazione” per maggior chiarezza. Esso distingue l’attività propriamente detta dalla cooperazione missionaria, ma sottolinea che, anche se non direttamente destinata alla diffusione del Regno di Dio, praticata dagli organismi più vari, nazionali e internazionali, questa collaborazione spesso può aver su di essa un’influenza[1].
L’insegnamento di Paolo VI (1963-1978)
Un paio di settimane dopo la morte di Giovanni XXIII, il cardinale Giovanni Battista Montini venne eletto papa. Il nuovo pontefice scelse il nome di Paolo come riferimento programmatico all’infaticabile apostolo delle genti. I suoi pellegrinaggi apostolici furono una novità per tutti. Le date e le mete si susseguivano a ritmo piuttosto sostenuto a dimostrazione che questo papa aveva in cuore lo zelo apostolico che si manifestò pienamente nel suo pontificato.
Paolo VI vede divisa l’umanità in due immense categorie: “operai dell’evangelizzazione” e “destinatari dell’evangelizza-zione”. Da una parte gli evangelizzatori, gli “operarii messis” o “cooperatori di Dio”, come li definisce richiamandosi alla nota immagine del Vangelo, seguendo gli indirizzi del Concilio. Da un ristretto numero di specialisti, egli allarga ad ogni credente in Cristo, rendendo tutti direttamente responsabili della diffusione della Buona Novella. Nessuno può dirsi estraneo alla causa dell’evangelizzazione[1].
Tra il decreto conciliare Ad gentes ed il Motu proprio Ecclesiae Sanctae sono trascorsi otto mesi[1]. Molte delle direttive promulgate sono l’eco fedele e talvolta letterale dei paragrafi dell’Ad gentes. Bisogna però notare le aggiunte per mezzo delle quali il Motu proprio struttura l’applicazione di diverse direttive conciliari. Il capitolo III porta le Norme per l’applicazione del decreto Ad gentes divinitus del Concilio Vaticano II. Al n. 3 il documento ricorda che “al fine di intensificare lo spirito missionario nel popolo cristiano, si raccomandino orazioni e sacrificio quotidiani, in modo che la celebrazione dell’annuale giornata missionaria sia una spontanea manifestazione di quello spirito”[1].
Tra le aggiunte ai testi conciliari si sottolinea il n. 4 dove il Papa chiede che in ciascuna diocesi venga incaricato un sacerdote di promuovere le opere missionarie così da porsi quale figura importante per la pastorale d’insieme per la promozione dello zelo nei fedeli[1].
Giornate Missionarie Mondiali
Il concetto di cooperazione missionaria si è andato ampliando parallelamente a quello di evangelizzazione e in realtà dal Concilio in poi, esso si è andato evolvendo in modo tale che dall’aiuto materiale dell’offerta in denaro e dall’aiuto spirituale della preghiera, così come essa si configura nei documenti pontifici pre-conciliari, è venuta ad ampliarsi in una vasta gamma di possibilità che vengono offerte alla libera scelta del cristiano. Paolo VI le sintetizza nell’insegnamento dato in occasione delle Giornate Missionarie Mondiali con appropriati messaggi e con discorsi diretti ai direttori nazionali delle Pontificie Opere Missionarie, radunati alle sessioni annuali.
L’occasione della Giornata Missionaria Mondiale, istituita nel 1927 con atto di papa Pio XI, ogni anno offriva le possibilità di ricordare, presentare e promuovere la dottrina della cooperazione missionaria nel mondo. L’appello del Papa si rivolge a tutto il popolo cristiano, perché tutti i figli di Dio, che “già sono nella casa del Padre, si ricordino dei fratelli che ancora ne sono fuori, e si uniscano nella preghiera e nelle opere della carità solidale e paterna”[1]. L’universalità della cooperazione missionaria è stata molte volte sottolineata facendo richiamo all’insegnamento del Concilio[1]. Nessun fedele cristiano deve credersi esonerato dal dovere missionario poiché mediante il battesimo è stato incorporato in una Chiesa essenzialmente missionaria.
Effettivamente, tutti i cristiani sono obbligati a cooperare per le missioni a secondo delle proprie capacità: alcuni potranno farlo con la parola, altri con la penna, questi con danaro, quelli con il lavoro manuale, altri, infine dedicheranno alle missioni il loro tempo. A tutti si presenta l’opportunità di offrire per le missioni le loro preghiere, le loro tribolazioni, le loro gioie, i loro dolori[1].
Paolo VI fa riferimento al ruolo delle Pontificie Opere Missionarie e loda ogni loro iniziativa in favore della cooperazione missionaria raccomandandole come quelle “che meglio realizzano l’unità della cooperazione dei fedeli col Sommo Pontefice”[1]. La Giornata Missionaria deve essere un vero spettacolo della carità materiale che in tutto il mondo, per mezzo delle diocesi, delle parrocchie, delle organizzazioni, delle varie iniziative unisce i cristiani e li induce a non rimanere indifferenti di fronte ai problemi della Chiesa missionaria[1]. “La generosità ha due modi di esplicarsi: essa fa oblazione di sé: ecco le vocazioni missionarie; essa fa oblazione delle proprie ricchezze: ecco la raccolta delle offerte per la causa missionaria”[1].
Nel Messaggio del 1977, il Santo Padre raccomanda la necessità della formazione missionaria. Per tutti gli operai dell’evangelizzazione è necessaria un’accurata preparazione che riguarda ciascun membro della Chiesa. “Solo da questa formazione seguirà un’efficace cooperazione, pur se diversa nei modi: preghiera, sacrificio, aiuto economico, prestazione personale, tipi di partecipazione secondo tempi e gradi differenti, consacrazione totale e permanente”[1]. Un anno dopo, nel suo ultimo messaggio in vista della celebrazione della Giornata Missionaria Mondiale[1], il Papa prende sotto esame una forma particolare di cooperazione: il cosiddetto gemellaggio. Tra le forme di assistenza alle Chiese giovani questo è proprio da ricordare come l’esempio sempre più diffuso. Papa Montini osserva che è un fenomeno da giudicare come autentico e positivo, quando con esso non si dimentica lo scopo fondamentale della cooperazione, diretta alle necessità urgenti di tutta la Chiesa missionaria[1].
La forma precedente del gemellaggio fu l’adozione. Nel messaggio Africa terrarum del 19 ottobre 1967[1] Paolo VI richiama con fermezza e accuratezza il dovere dell’aiuto da parte delle Chiese di antica cristianità verso queste Chiese sorelle. Per la prima volta in un documento pontificio appare il richiamo ad una nuova forma di cooperazione. Si tratta dell’assunzione di una missione particolare da parte di una diocesi o di una parrocchia[1].
Evangelii nuntiandi
Il Sinodo dei vescovi del 1974[1] aveva come oggetto di studio l’evangelizzazione nel mondo contemporaneo. Un anno dopo questa terza assemblea generale, in coincidenza con la chiusura dell’Anno Santo del 1975 e nel decimo anniversario della chiusura del Concilio Vaticano II, Paolo VI pubblica l’esortazione apostolica Evangelii nuntiandi sull’annuncio dell’Evangelo oggi[1]. Suo scopo era quello di incoraggiare e dare nuovo slancio all’attività missionaria[1] che versava in una crisi dalla quale neanche gli entusiasmi del Vaticano II avevano potuto tirarla fuori[1]. L’esortazione, comunque, non intendeva presentarsi come un superamento del Concilio ma al contrario, voleva inserirsi nella linea dei grandi documenti Lumen gentium e Ad gentes[1]. Il documento metta magistralmente in evidenza il significato dell’evangelizzazione in tutte le sue dimensioni. Come elemento centrale della missione, l’esortazione poneva una sintesi matura tra evangelizzazione, promozione umana, plantatio ecclesiae che si configura come plantatio caritatis. Paolo VI accenna ad un intimo legame tra Chiesa ed evangelizzazione[1] ripetendo le parole del Concilio Vaticano II che “tutta la Chiesa è missionaria e l’opera evangelizzatrice è un dovere fondamentale del popolo di Dio”[1].
La realtà missionaria del laico, afferma il Papa, si configura nella sua generalità e globalità come la realtà missionaria di tutto il popolo di Dio. Ogni laico, per il battesimo, è impegnato ed è parte essenziale della missione evangelizzatrice della Chiesa. Soprattutto, per la Chiesa, la testimonianza di una vita autenticamente cristiana “è il primo mezzo di evangelizzazione”[1]. Questa forma di evangelizzazione ha un’efficace funzione complementare a quella forma di annunzio esplicito della Parola che viene esercitata nella Chiesa attraverso il sacerdozio ministeriale[1].
L’“Evangelii nuntiandi”, come eco dei documenti conciliari, presenta una grande molteplicità di forme attraverso cui i fedeli laici possono essere coinvolti nell’opera evangelizzatrice della Chiesa, naturalmente secondo modi e misure rispettosi del loro essere laici:
Non bisogna tuttavia trascurare o dimenticare l’altra dimensione: i laici possono anche sentirsi chiamati a collaborare con i loro Pastori nel servizio della comunità ecclesiale, per la crescita e la vitalità della medesima, esercitando ministeri diversissimi, secondo la grazia e i carismi che il Signore vorrà loro dispensare[1].
Bisogna sottolineare che il documento non distingue in modo speciale il tema della cooperazione dei laici come aiuto alla comunità ecclesiale riguardo alla missione ad gentes[1]. Paolo VI accentua il campo proprio della loro attività evangelizzatrice e sottolinea, soprattutto quello della politica, dell’economia, della realtà sociale, della cultura, delle scienze e delle arti, della vita internazionale, della famiglia, dell’educazione, del lavoro professionale[1]. I fedeli laici, per loro specifica vocazione e per loro natura, sono missionari ovunque si trovino, se operano come è indicato loro dalla voce del Pontefice.
In conclusione, si deve constatare che, sebbene con grande circospezione e tra tentennamenti, il magistero centrale della Chiesa ha compiuto un lungo cammino verso una chiara definizione del ruolo dei laici nella cooperazione missionaria. Anche prima del Concilio Vaticano II il tema della partecipazione dei laici all’attività missionaria della Chiesa, nelle diverse forme di cooperazione, è stato presente nell’insegnamento pontificio, anche se in proporzioni ridotte e per lo più limitatamente ai suoi risvolti ecclesiologici. Anzi, esso aveva già subìto una certa evoluzione. Infatti, dal semplice apostolato della preghiera e del sacrificio, nei quali la carità apostolica e la generosità erano i fondamenti morali e dove questa forma di cooperazione, essendo un ringraziamento per la fede ricevuta, era molto utile ad allargare i confini del Regno di Dio (Leone XIII, Benedetto XV, Pio XI), estendendosi tramite la dottrina del Corpo Mistico del Signore, dove preghiere ed offerte erano un segno di dovere di pensare alla salvezza del prossimo (Pio XII), fino ad arrivare alla teologia conciliare e post-conciliare con il suo approfondimento dell’apostolato dell’evangelizzazione e della santificazione con l’indispensabilità della testimonianza della vita cristiana.